Blu
Quando lavoravo in un museo d’arte moderna a Parigi, mi capitava spesso di sentir citare un libro di Michel Pastoureau uscito nel 2000: Bleu, Histoire d’une couleur (Ed. Seuil). Molte riflessioni che seguono sono tratte da questo affascinante excursus sulla fortuna del colore blu, altre dall’Atlante sentimentale dei colori di Kassia St Clair (Ed. Utet).
Il blu è un colore tanto amato oggi quanto trascurato nell’antichità. Se per noi uomini contemporanei il blu evoca sensazioni di calma, riflessione e eleganza, e amiamo usarlo nel nostro abbigliamento e nelle nostre case, esso sembra praticamente assente dal mondo antico.
Le pitture rupestri del Paleolitico e del Neolitico, sono dominate da rossi, marroni e neri, perché i primi artisti non conoscevano il modo per produrre gli altri colori dello spettro cromatico.
Ma non solo, vi sembrerà difficile da credere, ma nella Bibbia il blu non viene mai menzionato, e anche Omero, che cita centinaia di volte il bianco e il nero, non usa alcun termine per indicare il blu, tanto che per descrivere il colore del mare, dice “scuro come il vino” !
Nella letteratura greca antica sostanzialmente non esiste una definizione del vero e proprio colore blu, ma altri termini che indicano un grigio azzurro (glaukòs) o una sfumatura di blu scuro che tende al nero (kyaneos).
Anche Nietzsche lo sapeva, e scrisse in un noto testo: «Quanto diversamente i Greci vedevano la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il loro mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo)”.
La mancanza di un vero e proprio termine per designare il colore blu in greco, indusse alcuni studiosi ottocenteschi a sospettare che essi fossero tutti daltonici ! Ma naturalmente si sbagliavano. Non era un difetto fisico a impedirgli di vedere il blu, quanto diciamo così, un condizionamento culturale.
Goethe nella Teoria dei colori (1808-10), affermò che la percezione dei colori dei greci era vaga e oscillante, e che si basava soprattutto in una distinzione tra colori luminosi e colori scuri. Quindi, essi percepivano i colori come differenti gradazioni del bianco e del nero, ed erano poco interessati a definire le varie tinte. Insomma, dei colori interessava loro determinare più la purezza, la saturazione o la luminosità, piuttosto che la tinta.
Questo è vero anche per varie civiltà arcaiche, non solo quella greca. In effetti, in molte culture antiche anche di diverse aree geografiche, i colori più citati sono il bianco e il nero – fondamentali per distinguere il giorno dalla notte e usati per indicare i concetti di splendore e oscurità – e poi il rosso, il colore del sangue e del pericolo; solo successivamente si aggiunsero il giallo e il verde.
Come notò il filologo ottocentesco Lazarus Geiger, questo fatto accomuna gli antichi testi cinesi così come l’epopea indiana del Mahabharata. Geiger osservò anche che nelle moderne lingue europee la parola blu deriva sempre dalle parole nero o verde.
Forse una spiegazione è da ritrovare nel fatto che il blu non è un colore molto presente in natura – nelle piante, nei fiori o negli animali – e quindi in termini evoluzionistici la definizione di questo colore non è un dato fondamentale alla sopravvivenza.
In un certo senso, il verde e il blu sono colori che appaiono nel linguaggio allorché risulta possibile una contemplazione pacata della natura, mentre nel contesto di lotta per la sopravvivenza che caratterizza le civiltà primitive, la nuvolosità del cielo o il movimento del mare sono più importanti della loro tinta.
Ma vediamo concretamente l’utilizzo del colore blu nelle varie civiltà antiche e nell’arte occidentale.
Dalla cultura greca la poca considerazione del colore blu si trasmette a quella romana. I romani associavano il blu alla barbarie, esso suscitava diffidenza e ostilità: Giulio Cesare affermava che i soldati celti e germani si tingevano il corpo e il viso di questo colore per spaventare i nemici in battaglia, mentre Plinio accusava le donne degenerate di fare lo stesso prima di prendere parte a un’orgia. A Roma indossare il blu era assolutamente disonorevole e poteva significare lutto e sfortuna.
Analogamente, il blu non appare quasi mai nei primi scritti cristiani almeno fino al Duecento.
La sola eccezione nel mondo antico è costituito dall’Egitto che nutriva invece per il blu una vera venerazione. Per gli egizi, esso rappresentava il cielo, l’acqua e il Nilo, quindi la fertilità dovuta alle esondazioni del fiume. Inoltre simboleggiava la vita, la rinascita e la creazione. Amon-Ra, la divinità principale del Pantheon egiziano, veniva spesso rappresentato con la pelle o gli occhi blu.
Verso il 2500 a.C., gli egizi furono anche gli inventori di un colore azzurro, che i romani definirono “Blu Egiziano”, usato per scrivere sui papiri, per i geroglifici sulle pareti, per decorare i sarcofagi o utilizzato come lacca per gli oggetti funerari. Un esempio è il famoso ippopotamo azzurro detto “William” conservato al Metropolitan Museum di New York.
Chimicamente, il Blu Egiziano è ottenuto da una miscela composta di calcio (derivato dal gesso o dal calcare), quarzo (ottenuto dalla silice presente nella sabbia del deserto) e un minerale contenente rame come la malachite (che conferisce il colore azzurro). Per crearlo era necessario cuocere tutti i componenti a una temperatura di circa 1000 gradi e in assenza di ossigeno.
Dopo un successo durato circa tremila anni, il metodo di produzione di questo colore venne dimenticato a causa probabilmente della poca domanda e del poco interesse che il colore suscitava nella cultura greca e romana.
A partire dal IX secolo, e durante il medioevo si diffuse quindi il Blu oltremare, che per altro era più semplice da produrre, grazie alla caratteristiche intrinseche del lapislazzuli.
Lapislazuli significa letteralmente: “pietra azzurra”. Lapis in latino significa pietra, e lazulus deriva dal persiano dove indicava “il colore dello zaffiro”.
Durante tutto il medioevo e fino al Settecento, questa pietra blu notte veniva estratta dalle miniere presenti in Afganistan, che Marco Polo nel 1271 descrisse come una “montagna , ove si ricava l’azurro, e è ‘l migliore e ‘l più fine del mondo”.
Se si pensa che il lapislazzuli sia una pietra semi-preziosa, in realtà si tratta di un insieme di minerali, tra cui la lazurite a cui è dovuto il colore blu intenso, la calcite (con striature bianche) e la pirite (contenente frammenti brillanti e dorati) .
Il lapislazzuli contiene quindi molte impurità; per estrarre la lazurite e ottenere quindi un blu intenso, si dovevano fare complesse lavorazioni: prima era necessario triturare il lapislazzuli, poi diluire la polvere ottenuta in trementina o olio di lino o cera, poi ancora scaldare il composto fino a ottenere una pasta, mischiarla alla lisciva alcalina e infine impastarla fino a fare depositare il pigmento. Il prodotto finito poteva risultare più o meno brillante, quasi grigiastro o tendente al verde, a seconda dell’abilità dell’artista.
Il pigmento così ottenuto era detto Blu oltremare proprio perché giungeva in Occidente attraverso la Via della seta, in Siria e da lì veniva caricato su navi dirette a Venezia.
La rarità dei giacimenti, i lunghi e pericolosi trasporti necessari per farlo giungere fino ai mercanti veneziani, e la difficoltà di lavorazione del prodotto grezzo, erano la causa dell’altissimo costo di questo pigmento, paragonabile a quello dell’oro.
Se il lapislazuli era già noto a Sumeri e Egizi, la sua grande diffusione cominciò quindi nel medioevo. Intorno all’XI secolo il manto della vergine Maria cominciò ad essere dipinto in blu, e non più in colori scuri che dovevano evocare il lutto del figlio, proprio per simboleggiare la spiritualità e umiltà della Madonna.
Via via che si diffuse il culto e la devozione di Maria, si diffuse anche l’utilizzo del blu oltremare negli affreschi delle chiese gotiche e nei palazzi reali; si pensi al cielo della Cappella degli Scrovegni di Giotto a Padova o agli affreschi del Palazzo dei Papi a Avignone.
In Francia, il blu oltremare conobbe un successo davvero notevole, tanto che i re Capetingi scelsero il giglio dorato su sfondo blu nello stemma araldico del regno. Luigi IX (noto come San Luigi), amava indossare abiti blu, e di conseguenza i nobili francesi e europei imitarono nel loro abbigliamento questa predilezione per il blu. Anche Re Artù viene sempre rappresentato in abiti blu. Insomma, se il rosso era il colore del papato, il blu era decisamente il colore del Re.
Il meraviglioso dittico Wilton conservato alla National Gallery di Londra, databile agli ultimi anni del 1300, fu commissionato dal o per il re d’Inghilterra Riccardo II e realizzato probabilmente da un artista francese o inglese. Splendido esempio di Gotico internazionale, mostra una Madonna col Bambin Gesù su uno sfondo dorato punzonato, circondati da undici bellissimi angeli in abiti blu oltremare su un prato ricco di foglioline d’erba e di fiori delicati. Il dittico è dipinto con tale cura dei dettagli una maestria tecnica e una preziosità nella scelta dei materiali che ne fanno quasi un’opera di oreficeria.
Tra il 1130 e il 1140 a Parigi, l’abate Suger, figura di spicco alla corte di Francia, fece installare nella Basilica di Saint Denis vetrate colorate con cobalto che inondavano la chiesa di una splendida luce blu-violetta; l’abbazia divenne una tale meraviglia per il mondo cristiano che negli anni seguenti vetrate blu ancor più prestigiose furono installate in altre chiese, come nella Cattedrale di Chartres e nella Sainte-Chapelle di Parigi.
Durante tutto il Rinascimento, gli artisti cercavano di procurarsi il pregiato pigmento a prezzi migliori, intraprendendo viaggi a Venezia, oppure lo richiedevano direttamente ai committenti, che potevano anticipare grosse somme di denaro per acquistarlo. Di conseguenza, i committenti si accertavano nei contratti che i pittori utilizzassero tutta la quantità di Blu oltremare da loro fornita.
Quando si pensa al blu oltremare vengono in mente i cieli di molti dipinti, dal Bacco e Arianna di Tiziano al Giudizio universale di Michelangelo nella Cappella Sistina. Un altro celebre dipinto che fa sfoggio di uno splendido blu oltremarino è la Madonna del Sassoferrato, dove il manto blu della Vergine, raffigurato con virtuosismo magistrale, simbolo della sua umiltà e spiritualità, è il vero fulcro estetico e morale dell’opera.
Un altro blu che veniva spesso utilizzato durante il medioevo e il rinascimento soprattutto per tingere tessuti, era il Blu Indaco, ottenuto attraverso l’uso di piante come il Guado o l’Indigofera tinctoria.
Certe zone della Francia, in particolare in Turingia e attorno ad Albi, Carcassonne e Tolosa, si arricchirono grazie alle coltivazioni e al commercio del guado, tanto che divennero note come “paesi della cuccagna” (la cocagne era il panetto di colore ad uso dei tintori). In Italia, il guado era commerciato e coltivato nelle Marche, in Umbria (il nome della città di Gualdo Tadino deriva da questa pianta), Toscana, Liguria e Piemonte tra XIV e XV secolo. Si pensi che il pittore Piero della Francesca era figlio di un mercante di Guado di Borgo San Sepolcro.
Insomma nella storia occidentale il blu ha conosciuto alterne vicende, ed è stato caratterizzato da una vera ambivalenza: da colore incivile e indegno per una persona di rispetto, a simbolo di regalità e spiritualità, realizzato attraverso la lavorazione di materiali preziosi e rari, fonte di ricchezza per chi lo produceva e commerciava.
Facendo un salto temporale fino al Novecento, si ricorderà che Picasso dedicò alcuni anni, tra il 1901 e il 1904, al cosiddetto “periodo blu” che nel suo caso è associato all’emozione della tristezza e della malinconia. Pare che questo cupo periodo artistico, nel quale l’artista ritrasse poveri ed emarginati dalla società, fosse caratterizzato da un profondo stato depressivo probabilmente iniziato con il suicidio di un amico pittore a lui molto caro. In quegli anni di dolore, l’artista faticava a vendere le sue tele, e probabilmente anche a causa del suo malinconico blu e dei suoi soggetti poco attraenti, visse un periodo di particolare indigenza.
Cinquant’anni dopo, sarà l’artista francese Yves Klein a omaggiare il blu, in tutto il suo splendore, realizzando quasi duecento monocromi di un colore incredibilmente intenso e luminoso. Con i suoi monocromi blu, Klein voleva evocare “una finestra aperta sulla libertà, come la possibilità di essere immersi in una incommensurabile esistenza di colore”.
Nel 1957, l’artista realizzò infatti il “suo” blu con l’aiuto di un mercante di colori e di una casa farmaceutica, unendolo a una resina che aveva la brillantezza e la straordinaria profondità dell’antico pigmento ottenuto con i lapislazzuli. Il blu di Klein, che fu depositato col nome di IKB (Internatioal Klein Blue), era proprio un omaggio al blu oltremarino utilizzato per il manto della Vergine dagli artisti medievali e rinascimentali.
L’artista, che tra le prime opere-performances aveva “firmato il cielo”, ha dedicato tutta la sua attività creativa all’infinito e all’immateriale.
Con un atteggiamento irriverente, spirituale e spiritoso, che lo avvicina a a Duchamp o a Piero Manzoni, Klein riuscì a coniugare un approccio concettuale a uno commerciale all’arte, impersonando con la sua opera e la sua vita, la doppia natura dell’antico e preziosissimo pigmento.