La scienza dei colori
Avete presente la copertina dell’album dei Pink Floyd con il prisma? Come sappiamo, illustra il famoso esperimento di Isaac Newton sulla rifrazione della luce.
Partiamo da qui per un viaggio nel mondo delle varie teorie dei colori che si sono succedute nei secoli. Nei precedenti articoli abbiamo affrontato una storia dei colori dal punto di vista artistico; ora vogliamo imbatterci nelle principali teorie scientifiche per rispondere alla domanda:
Perché e in che modo vediamo i colori?
Secondo gli antichi greci, i colori erano generati da una divinità attraverso celesti raggi di fuoco, ed erano fatti sia di luce che di buio. I due colori principali erano il giallo e il blu, derivati dalla luminosità e dall’oscurità, e corrispondenti alla dualità di giorno e notte, maschile e femminile, ecc. Essi simboleggiavano aria e acqua, e insieme a verde e rosso (rispettivamente la terra e il fuoco), corrispondevano ai quattro elementi.
Oggi possiamo dire che i colori sono il risultato di come il cervello interpreta le varie onde luminose di cui è composta la luce.
Come Newton ha dimostrato con il famoso esperimento del prisma, la luce è fatta di diverse lunghezze d’onda e frequenze e come vedremo in dettaglio più avanti, contiene in sè tutte le sfumature dell’arcobaleno. Detta in modo semplice, gli oggetti hanno diversi colori perché ASSORBONO alcune lunghezze d’onda e ne riflettono altre, proprio quelle che il nostro occhio percepisce e elabora sotto forma di colore.
Per dirla tutta, i colori che noi percepiamo corrispondono a una piccolissima parte dello spettro elettromagnetico, compresa tra i raggi infrarossi e i raggi ultravioletti, come è ben descritto nella seconda immagine che vedete qui a fianco. Le lunghezze d’onda più lunghe corrispondono a colori caldi (rossi arancioni e gialli) e quelle più corte ai colori freddi (blu e verdi).
Dal punto di vista anatomico, potremmo descrivere così il fenomeno della visione: la luce entra nei nostri occhi passando attraverso il cristallino e poi colpisce la retina, che si trova in fondo al bulbo oculare ed è piena di fotoricettori, cioè cellule sensibili alla luce. Questi fotorecettori sono i coni e i bastoncelli. I bastoncelli (ne abbiamo 120 milioni per occhio) servono soprattutto a distinguere il buio dalla luce, mentre i coni (molto meno numerosi e presenti nella parte centrale della retina chiamata macula) sono sensibili al colore.
Circa due terzi dei coni presenti nella nostra retina, sono in grado di recepire le lunghezze d’onda più lunghe, cioè i colori più caldi. Senza dubbio il colore rosso, il più “visibile” all’occhio umano, viene da sempre scelto per le segnalazioni di pericolo come per i cartelli stradali più importanti, proprio per questa ragione.
Come siamo arrivati a capire queste cose? Chi sono stati i primi pensatori a studiare il fenomeno della visione dei colori in modo scientifico?
Nell’antichità il testo di riferimento in materia era il libro Sui Colori scritto da Aristotele e altri filosofi peripatetici, poi Hasan Ibn al-Haytham (X sec d.C.) scrisse un Libro di Ottica basato su esperimenti ottici con sfere di vetro riempite d’acqua. Altre teorie sui colori si trovano negli scritti di Leon Battista Alberti (1435 circa) e di Leonardo Da Vinci (1490 circa).
Ma davvero rivoluzionario è ancora oggi il testo che Newton pubblicò nel 1704, Optiks, che pur senza citandolo, si basa sul libro di Ottica di Hasan Ibn al-Haytham.
Nel 1666, anno in cui Londra fu invasa dalla peste e poi devastata da un terribile incendio, Isaac Newton fece esperimenti sulla rifrazione della luce utilizzando dei prismi. Egli scoprì che un fascio di luce bianca poteva essere scomposta nei colori dell’arcobaleno, e che quindi i colori non derivavano da una commistione di luce e buio come pensavano gli antichi e come avevano creduto anche tutti gli artisti fino ad allora.
Quando scoppiò la peste a Londra Newton aveva 24 anni, ed era appena stato insignito del titolo di Bachelor of Arts dall’Università di Cambridge. Per sfuggire al contagio il giovane scienziato pensò bene di rifugiarsi nella sua casa di campagna a Woolsthorpe, in una sorta di “quarantena volontaria” che lo salvò dal contagio che nel frattempo in città continuava a mietere vittime (stimate tra le 75.000 e le 100.000 ). Libero dalle attività accademiche (l’università era stata chiusa a causa dell’emergenza), Newton poté dedicarsi a tempo pieno agli studi e agli esperimenti che lo porteranno a sviluppare le sue teorie sul calcolo, sull’ottica e sulla gravità.
A questo periodo risale la leggenda della mela caduta dall’albero, che diede allo scienziato lo spunto per studiare più a fondo e da una prospettiva diversa, le leggi del movimento gravitazionale. E a questo stesso periodo risalgono gli esperimenti in camera oscura che permisero a Newton di comprendere la natura della luce: studiando ciò che accade ad un raggio di luce bianca che attraversa un prisma di vetro, intuì che il colore non è una qualità dei corpi (come si riteneva all’epoca) bensì una caratteristica della luce stessa.
Ci vollero 44 esperimenti in camera oscura per giungere alla conclusione che rivoluzionerà la storia della scienza: ma fu proprio in questo periodo di isolamento forzato che Newton elaborò gran parte degli scritti accademici che gli conquistarono l’apprezzamento della Royal Academy, e che lo resero una delle menti più importanti del XVII secolo e oltre.
Dicevamo quindi che fino a quel momento si pensava che i colori ottenuti filtrando la luce solare attraverso un prisma fossero dovuti all’impurità del vetro; Newton invece dimostrò che i colori nascono da una scomposizione della luce, e si possono anche ricomporre per ottenere il colore bianco.
Questa proprietà si chiama proprietà additiva dei colori.
Esistono infatti due modi per mescolare i colori, uno additivo e uno sottrattivo.
a) nella mescolanza additiva, si sommano varie lunghezze d’onda luminose fino a ottenere una luce bianca (è il sistema degli schermi di televisioni e computer, fatto di puntini rossi verdi e blu, detto anche RGB).
b) nella mescolanza sottrattiva, si sommano invece i colori ottenuti dalla materia. Il principio sostanzialmente è l’opposto: la materia pittorica, riflettendo soltanto le poche lunghezze d’onda che non assorbe, quando mescolata con altra materia pittorica, va a sottrarre ancora più lunghezze d’onda; in questo modo il colore percepito sarà spesso scuro, grigio o nero. Questo sistema, utilizzato in tipografia, è noto come CMYK, dove i colori si ottengono mescolando i colori primari ossia ciano magenta e giallo, a cui si aggiunge il nero.
Questo si riflette nell’esperienza comune di ogni pittore: più colori si mescolano insieme, più si corre il rischio che il colore che ne risulta sia opaco e tenue. Per ottenere colori brillanti quindi, è meglio usare pochi colori, perché le misture assorbendo molte lunghezze d’onda, tolgono luminosità al dipinto.
Accenniamo quindi a due esperimenti di Newton facilmente replicabili, che spiegano la qualità additiva dei colori:
- Il disco di Newton. Composto dai sette colori dell’arcobaleno; ruotandolo mescola la luce riflessa dai colori diversi, riflettendo una luce biancastra. Si ottiene dunque l’illusione che i colori tendano ad uniformarsi e a diventare bianchi. Con la rotazione veloce, ogni colore rimane impresso nella retina dei nostri occhi per una brevissima frazione di secondo e si fonde con quello successivo. In questo modo, i tre tipi di recettori luminosi (coni) presenti nella nostra retina vengono stimolati contemporaneamente.
- Il prisma di Newton. L’esperimento è facile da riprodurre: basta disporre di un prisma di vetro e illuminarne una faccia con un fascio di luce bianca collimato (torcia elettrica). Su tale faccia va creata una fenditura – ad esempio tramite due cartoncini neri – in modo da restringere la luce entrante nel prisma a una sottile striscia.
Se tale accorgimento non viene adottato, il risultato è tutt’altro: l’estensione dell’area illuminata fa sì che sullo schermo si abbia una zona centrale di sovrapposizione di tutti i colori spettrali e di conseguenza una ricostituzione del bianco. Soltanto ai bordi ciò non può aver luogo, a causa della contiguità con le zone oscure, e dunque si osservano solo i due colori estremi. È istruttivo partire dalle condizioni corrette e poi allargare gradualmente la fenditura fino a raggiungere l’errata figura di Goethe.
La luce bianca entrando nel prisma si separa nei suoi colori costituenti per effetto della rifrazione, il cui angolo dipende dalla lunghezza d’onda. Come sappiamo ad ogni lunghezza d’onda corrisponde un colore diverso. A seconda della lunghezza d’onda cambia anche l’indice di rifrazione, cioè l’angolo di rifrazione. Quando il fascio di luce colpisce il prisma, compare quindi un arcobaleno dei colori che compongono lo spettro visibile all’occhio umano della luce bianca.
Newton dimostrò anche che il fascio può essere ricomposto, ponendo un secondo prisma capovolto dopo il primo, in modo da compensare l’angolo di rifrazione.
Mentre Newton era interessato a un approccio scientifico alla luce e al colore, Wolfgang Goethe, nel suo libro Teoria dei Colori del 1810, si focalizzò sulla natura e sulla percezione dei colori dal punto di vista umanistico e psicologico. Goethe ripeté, maldestramente, l’esperienza di Newton. Era poeta e scrittore, ma anche ingegnere e studioso di scienze naturali. Omise l’impiego dei cartoncini neri e non riuscì quindi a ottenere il risultato corretto, asserendo che Newton aveva sbagliato, se non addirittura truccato i dati.
Riecheggia in questa concezione il motto della corrente Sturm und Drang: «La scienza è falsa e la poesia la vera conoscenza dell’Universo».
La visione romantica, che spiegava la realtà come il risultato di un contrasto di poli opposti, spinse Goethe a dire che i colori traevano origine dalla contrapposizione luce-oscurità agli estremi della zona illuminata e quindi comparivano soltanto lì. Questa teoria affondava le sue radici nell’antica visione di Aristotele, secondo cui i colori principali erano il giallo e il blu, uno vicino alla luce e l’altro all’oscurità.
Quando si parla di colori, non si può ignorare un’altra figura fondamentale, quella di Johannes Itten. Pittore, designer e scrittore svizzero, fu attivo al Bauhaus tra il 1919 e il 1923. Al Bauhaus di Weimar, gli fu affidato da Walter Gropius il corso preliminare, nel quale teorizzò una complessa differenziazione di colori.
La teoria dei colori di Itten fu influenzata dalle sue convinzioni spirituali, e si basava principalmente sulle idee di Goethe. Come lui, Itten pensava che ciò che contava di più era l’esperienza soggettiva dei colori.
Secondo lo schema del cerchio di Itten, al centro vi sono i tre colori primari, ciano, magenta e giallo, con i quali si generano i colori secondari, verde arancio e viola, e infine mischiando un colore primario con uno secondario si ottiene un colore terziario (verde-giallo, giallo-arancio, arancio-rosso, rosso-viola, viola-blu, azzurro-verde). In totale vi sono quindi 12 colori.
Itten teorizzò sette tipi di contrasti di colori, per tonalità, per temperatura, per luminosità, per complementarità, per simultaneità, per saturazione e per estensione.
Le teorie sui colori e sulle loro interazioni di Itten influenzarono molto la Op Art. Inoltre, a lui si deve l’associazione di gamme di colori a quattro tipi di persone, identificate poi con i nomi delle stagioni. Ancora oggi questa teoria, nota col nome di armorocromia, è molto popolare ed è stata utilizzata nel mondo della cosmetica e nella moda.
Un altro importante contributo nella comprensione e classificazione dei colori, va attribuito a Albert Munsell, che nel 1900 teorizzò un modello oggi utilizzato come standard internazionale. Questo schema fu adottato negli anni trenta come sistema di colori ufficiali per le ricerche sul suolo, per esempio in ambito agricolo e archeologico.
Secondo Munsell le proprietà del colore, cioè quelle caratteristiche che rendono un colore unico, sono la tonalità, la saturazione e la luminosità.
Lo schema quindi è formato da tre coordinate dimensionali:
- Tonalità o sfumatura (Hue) Dipende naturalmente dalla lunghezza d’onda e è ciò con cui identifichiamo il colore. La sfumatura ci consente di distinguere il rosso dal blu e si riferisce al percorso che un tono fa verso un lato o l’altro del cerchio cromatico (il verde giallastro e il verde bluastro sono diverse sfumature del verde). Munsell divise il cerchio cromatico in 5 tonalità : rosso, giallo, verde, blu e violetto.
- Luminosità (Value o lightness) è il termine usato per dire quanto sia chiaro o scuro un colore. Più il valore o la luminosità è alta, più il colore naturalmente riflette luce. Più è basso più assorbono luce. Nello schema di Munsell varia lungo l’asse verticale, da un valore 0 corrispondente a nero a un valore 10 corrispondente a bianco.
- Saturazione (Chroma) rappresenta l’intensità, la brillantezza o la vivacità di un colore. I colori primari, prima di essere miscelati con gli altri, hanno il valore di intensità più elevato. Quindi i colori puri sono completamente saturi. I colori neutri quindi sono colori poco saturi (beige, greige, tortora, sabbia, corda ecc.) Nello schema di Munsell è misurata radialmente dal centro di ogni settore circolare del sistema, e indica il grado di purezza del colore. Dove i valori più bassi corrispondono a colori più sporchi, tenui e tendenti al grigio.
La percezione del colore è comunque un fenomeno complesso, sia dal punto di vista fisico che biologico, e ha molti aspetti soggettivi e variabili. Un colore cambia per prima cosa in funzione delle condizioni luminose dell’ambiente in cui è immerso.
Si pensi alla foto virale che invase i social nel 2015: un abito da donna che ad alcuni appare blu, ad altri bianco. Oppure vi ricorderete della scarpa che alcuni vedono rosa e bianca, e altri grigia e verde. Ma com’è possibile?
Sostanzialmente il nostro cervello, in assenza di informazioni relative al contesto, e in particolare alla luce in cui è immerso l’oggetto, tende a compensare o a correggere visivamente, facendo supposizioni. Il vestito, privo per esempio dell’indizio del colore della pelle, appare blu a chi pensa che esso sia inondato di luce, e bianco a chi lo immagina in ombra. Stesso discorso per la scarpa, che appare bianca e rosa a chi la immagina sottoesposta, e verde e grigia a chi suppone sia collocata in piena luce.
Questi esempi ci hanno reso consapevoli del fatto che la percezione, sebbene sia un fenomeno scientifico, è un fatto che può avere molte variabili soggettive.